IVG e aborto: come e quando si può interrompere una gravidanza?
Con l’acronimo “IVG” si intende l’Interruzione Volontaria della Gravidanza, un fenomeno disciplinato nel nostro paese da una legge introdotta ormai da circa quarant’anni, ovvero la Legge 194 del 1978: “Norme per la tutela sociale della maternità e sulla interruzione volontaria della gravidanza”.
Prima che entrasse in vigore tale legge con il termine “aborto” si definiva quella pratica illecita che integrava un reato di cui potevano essere imputati tanto la donna che vi faceva ricorso quanto coloro i quali la istigassero o la agevolassero ad effettuarla.
Essendo vietato dalla legge, l’aborto veniva necessariamente praticato in maniera clandestina, talvolta con l’aiuto di medici disposti a praticarlo in cambio di compensi esorbitanti, talora ancor peggio, con l’assistenza di persone del tutto estranee al campo medico e con rischi elevatissimi per la salute della donna.
Proprio per questi motivi il nostro legislatore ha preso coscienza della necessità di regolamentare il fenomeno ed ha stabilito precisi limiti entro i quali poter effettuare l’interruzione di gravidanza, ponendo come obiettivo primario quello di tutelare la salute della donna in stato interessante.
Ed infatti, come noto, sino al novantesimo giorno di gravidanza è consentito effettuarne l’interruzione, nelle competenti strutture sanitarie ed a condizione che la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità possano comportare per la donna un “serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito”.
Con tale espressione si è voluto, in maniera piuttosto evidente, dare un’ampia discrezionalità alla donna di decidere se interrompere o meno la propria gravidanza (si pensi ad esempio alle gravidanze indesiderate poiché conseguenti a relazioni incestuose o a violenze sessuali, o anche molto più semplicemente a casi di evidente indigenza della donna); in questi casi il medico interpellato in merito ad una richiesta di IVG rilascia un certificato alla donna in stato di gravidanza con il quale la invita a “soprassedere” per sette giorni, dopodiché la sua volontà di procedervi dovrà ritenersi confermata e potrà quindi recarsi nelle sedi autorizzate per praticare l’interruzione di gravidanza.
In molti però non sanno che è possibile interrompere la gravidanza anche oltre il novantesimo giorno, benché in presenza di limiti molto più stringenti di quelli appena ricordati.
Ed infatti, è consentito ricorrere alla IVG quando sia medicalmente accertato che la gravidanza o il parto possano comportare un “grave pericolo per la vita della donna” oppure quando il nascituro possa sviluppare patologie tali per cui possa derivare successivamente alla madre un grave pericolo per la sua salute fisica o psichica.
Nell’ardua difficoltà di dover scegliere se sia più giusto salvare la vita della donna o quella del nascituro, il nostro legislatore ha ritenuto di dover privilegiare la prima, effettuando così una chiara scelta di natura “bioetica”, prevedendo al contempo specifici reati per chi procuri la IVG senza l’osservanza delle norme previste dalla legge 194/1978.
Naturalmente, resta salva la facoltà del medico che si dichiari “obiettore di coscienza” di rifiutarsi di praticare la IVG, un diritto di cui, secondo le ultime statistiche, si avvale oggi circa il 65,5 % dei medici italiani.
Avv. Andrea Ricci
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