Dal delitto d’onore al delitto passionale, cosa cambia?
Sono passati meno di trent’anni da quando il nostro parlamento ha approvato una legge con la quale ha cancellato definitivamente il “delitto d’onore”, una norma posta a tutela di chi, dopo aver subito l’onta di un tradimento, avesse voluto lavare con il sangue il proprio disonore[1].
In pratica, ai sensi dell’abrogato articolo 587 del codice penale, l’uccisione del coniuge, della figlia o della sorella commesso in occasione della scoperta di una “illegittima relazione carnale” veniva punito in maniera molto ridotta, ovvero con una pena compresa tra tre e sette anni di reclusione, per il semplice fatto che tale comportamento della vittima potesse aver creato un disonore ed al contempo un particolare stato d’ira nei confronti dell’omicida.
Tale norma, figlia indubbiamente di una società maschilista e patriarcale, assegnava di fatto al capo famiglia un ruolo chiave nella gestione dei rigidi meccanismi familiari dell’epoca, avendo egli, come visto, addirittura il potere di sostituirsi al genero o al cognato per vendicare un tradimento consumato in loro danno.
Inoltre, occorre aggiungere che la stessa pena attenuata poteva essere applicata anche per l’omicidio della persona che si era resa complice della violazione del dovere di fedeltà coniugale.
Al giorno d’oggi, nonostante l’abolizione del delitto d’onore, continua ancora a parlarsi di “delitti passionali” per fare riferimento ad omicidi in cui il movente è da attribuirsi alla gelosia o al desiderio di vendetta dell’omicida e che in qualche modo dovrebbe fungere da grave indizio di colpevolezza nella fase della individuazione del responsabile e, eventualmente, anche da attenuante in caso di condanna.
Resta dunque da capire se effettivamente può costituire ancora oggi un’attenuante il fatto di aver commesso l’omicidio del proprio partner in preda ad un raptus di gelosia.
Ebbene, la questione non è di poco conto se si considera che in assenza di attenuanti il nostro codice penale prevede una sola pena applicabile per tale delitto, l’ergastolo[2].
Scorrendo l’elenco delle ‘attenuanti comuni’, ossia quelle applicabili a tutti i reati, si può scorgere una circostanza che effettivamente potrebbe risolvere il suddetto quesito, ovvero quella della provocazione: “l’aver agito in stato d’ira, determinato da un fatto ingiusto altrui”[3].
Ciò tenendo conto anche del fatto che la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha stabilito che ‘fatto ingiusto’ deve essere considerato non solo l’atto illecito o addirittura la commissione di un reato, ma anche la semplice “inosservanza di norme sociali o di costume regolanti la ordinaria, civile convivenza”[4].
Tuttavia, bisogna anche considerare che al giorno d’oggi la violazione del dovere di fedeltà coniugale non è più ritenuta una condotta particolarmente grave e da stigmatizzare, in molti casi infatti ciò non viene nemmeno riconosciuto come causa di addebito in fase di separazione o divorzio.
Inoltre ai fini della sussistenza della attenuante in esame occorre che vi sia, se non una esatta proporzione, quantomeno un rapporto di adeguatezza tra il fatto ingiusto e la commissione di un reato.
Per tali ragioni oggigiorno, il semplice tradimento, per quanto biasimevole possa essere considerato, non potrà più essere in grado di attenuare la gravità di un omicidio.
Avv. Andrea Ricci
[1] Legge n. 442 del 10 Agosto 1981
[2] Articolo 577 del codice penale
[3] Articolo 62 n. 2 del codice penale
[4] Cassazione penale, sentenza n. 12558/04
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