Reato di rapina in ambito domestico: il coniuge ha l’immunità?
Una recente sentenza della Corte di Cassazione è balzata agli onori della cronaca in quanto ha stabilito che impossessarsi del cellulare del proprio partner al fine di controllarne il contenuto integra il reato di rapina, reato che nel nostro ordinamento è severamente punito con pene addirittura sino a venti anni di reclusione e 3.098 euro di multa.
Tale reato viene infatti a configurarsi quando “chiunque per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto mediante violenza alla persona o minaccia, si impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene”.
Ebbene, nel caso attenzionato dalla Corte non v’era alcun dubbio che l’imputato avesse carpito con l’uso della forza il cellulare della propria compagna, al contempo anche l’impossessamento del telefono, seppur momentaneo, risultava ampiamente provato, così come anche l’ingiusto profitto (che non deve essere necessariamente economico), avendo egli appreso indebitamente informazioni della vittima contenute nel suo telefonino, corretta risultava dunque anche la pena irrogata: 1 anno e 8 mesi di reclusione oltre a 600 euro di multa.
A molti però potrebbe apparire alquanto anomalo che un simile comportamento, tenuto nei confronti, non di un estraneo, ma verso il proprio partner possa essere oggetto di un intervento dello Stato così incisivo e penetrante e, in effetti, è opportuno precisare il nostro ordinamento prevede espressamente delle specifiche eccezioni per quanto riguarda i reati contro il patrimonio qualora vengano commessi nei confronti di un familiare.
Infatti, l’articolo 649 del codice penale stabilisce che tali reati, a condizione che non vengano commessi con l’uso della violenza fisica (ad esempio il furto o l’usura), non sono punibili se commessi in danno del “coniuge non legalmente separato”, mentre laddove vi sia stata separazione il reato potrà essere punito soltanto qualora il coniuge abbia sporto querela entro tre mesi dalla commissione del fatto.
Analoghe disposizioni sono previste anche per i reati commessi contro i discendenti, gli ascendenti, gli adottanti o adottati, gli affini in linea retta, i fratelli e le sorelle, gli zii e i nipoti, proprio per far sì che in ambito familiare possano essere tollerati alcuni comportamenti che in astratto risulterebbero penalmente rilevanti, ma che in concreto meritano di trovare una loro composizione all’interno delle mura domestiche.
Dunque da tale particolare deroga prevista dal codice penale restano categoricamente esclusi i reati commessi con violenza e quelli posti in essere contro le persone con le quali non si hanno rapporti di parentela, affinità o coniugio.
Vero è che il nostro codice, entrato in vigore nel 1930, appare oggi alquanto vetusto ed anzi oramai anacronistico, dal momento che andrebbe aggiorato non essendoci in esso alcuna traccia né delle “unioni civili” né delle “convivenze di fatto” recentemente introdotte con la legge Cirinnà.
In attesa che il parlamento renda il nostro codice più attuale, spetterà inevitabilmente ai nostri giudici decidere se si possa sopperire a tale mancanza, equiparando il matrimonio ai nuovi rapporti para-familiari, stante il silenzio assoluto della legge.
Avv. Andrea Ricci – Centro Integrato di Sessuologia Il Ponte
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