Maternità surrogata: chi diventa madre in Italia?
Mater semper certa est, pater numquam! così recita un antico brocardo latino per indicare che, senza ombra di dubbio, la madre di un bambino non poteva che essere colei che lo aveva partorito.
In realtà, da diversi anni a questa parte, la regola enunciata dagli antichi romani sembra ormai aver perso quel carattere dogmatico che la scienza dell’epoca gli conferiva.
Infatti, il progresso scientifico raggiunto sinora ha fatto sì che anche le coppie sterili possano raggiungere il traguardo della filiazione facendo ricorso alle tecniche di “fecondazione assistita”, ovvero quella “omologa” quando i gameti appartengono alla coppia oppure “eterologa” se appartengono a donatori esterni.
In questi casi il concepimento viene raggiunto in maniera ‘scientifica’ e non certamente ‘naturale’, ma ciò nonostante non verrà scalfita la regola per cui la donna che partorirà il concepito diverrà anche la madre di quest’ultimo.
Diverso è invece il caso della cosiddetta “maternità surrogata”, in cui una coppia può affidare la gravidanza del proprio concepito ad un’altra donna, la quale però al momento della nascita non diverrà la madre del neonato e ciò in virtù di un contratto previamente sottoscritto da entrambe le parti.
In Italia, quest’ultima pratica, nota anche come “utero in affitto” è severamente vietata dalla legge n. 40 del 2004: “Chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità è punito con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600.000 a un milione di euro”.
In altri paesi come l’India, gli USA, la Gran Bretagna, la Russia e l’Ucraina la maternità surrogata è invece lecita e puntualmente disciplinata.
Proprio per questo motivo molte donne che non hanno la possibilità di portare avanti una gravidanza espatriano dando origine a quel fenomeno che la stampa ha più volte definito, in senso spregiativo, come “turismo riproduttivo”.
In questi casi i problemi maggiori sorgono quando la coppia intende chiedere la trascrizione in Italia dell’atto di nascita rilasciato all’estero, poiché la legge italiana[1] riconosce ancora una sola ed unica madre: “la maternità è dimostrata provando la identità di colui che si pretende essere figlio e di colui che fu partorito dalla donna, la quale si assume essere madre”.
Per tali ragioni, nel momento in cui viene appurato che la persona che ha partorito il neonato è persona diversa da colei che si professa madre dinanzi all’ufficiale di stato civile si prospetta per quest’ultima la possibilità di una denuncia per il reato di alterazione di stato civile:“si applica la reclusione da cinque a quindici anni a chiunque, nella formazione di un atto di nascita, altera lo stato civile di un neonato, mediante false certificazioni o altre falsità”[2].
La Suprema Corte di Cassazione si è pronunciata più volte su tale questione di diritto, ad esempio nel 2016 si è espressa su una vicenda in cui erano stati imputati di tale reato un coppia che aveva fatto ricorso alla maternità surrogata in Ucraina ed aveva poi congiuntamente richiesto all’ambasciata italiana il riconoscimento dell’atto di nascita[3].
Il processo ebbe fortunatamente un epilogo positivo per la coppia, secondo la Cassazione infatti nessun reato poteva ritenersi commesso in quel caso dal momento che, ai sensi della normativa ucraina, la pratica cui avevano fatto ricorso gli imputati era da ritenersi pienamente lecita e gli stessi si erano semplicemente limitati a chiedere il riconoscimento in Italia di un certificato che, conseguentemente, non poteva affatto essere ritenuto falso.
La Corte ha inoltre chiarito che, stando al passo con i tempi, bisogna prendere atto che siamo ormai di fronte ad una evoluzione del concetto classico di maternità, in cui lo stesso “non è più legato ad una relazione necessariamente biologica, ma sempre più considerato quale legame giuridico”.
Secondo il punto di vista degli ermellini, insomma, la madre non “semper certa est”.
Avv. Andrea Ricci
[1] Articolo 269 del codice civile
[2] Articolo 567 del codice penale
[3] Cassazione Penale, Sesta Sezione, Sentenza n. 48696 del 11.10.16
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